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Osservazioni sulla Strategia Energetica Nazionale 2017


Con decreto del 10 novembre 2017, i Ministri dello Sviluppo Economico e dell’Ambiente hanno adottato la nuova Strategia Energetica Nazionale (SEN). Questa prelude al Piano Nazionale Integrato per l’Energia e il Clima che ciascun paese membro dell’Unione Europea dovrà presentare alla Commissione entro il 2018 per poi renderlo definitivo entro il 2019. Il piano dovrà specificare le politiche e le misure che s’intendono attuare per conseguire gli obiettivi stabiliti per il 2030 riguardo alle cosiddette cinque “dimensioni dell’energia”: decarbonizzazione, efficienza energetica, sicurezza energetica, mercato interno, innovazione e competitività.


In sintesi, la decarbonizzazione si attua sostituendo i combustibili fossili con le fonti rinnovabili e migliorando l’efficienza energetica; la sicurezza energetica si ottiene riducendo la dipendenza dall’estero e migliorando la flessibilità dei sistemi di approvvigionamento e delle infrastrutture; la competitività si aiuta riducendo la bolletta energetica. Sono obiettivi piuttosto impegnativi per l’Italia, a partire dall’ultimo, in quanto ogni tep (tonnellata equivalente di petrolio) di energia utilizzata è gravato da un’imposta superiore del 58% alla media europea, situazione che obbliga anzitutto ad allineare i prezzi nazionali a quelli europei per poi cercare di ridurli ulteriormente. Non sarà facile nemmeno ridurre la dipendenza energetica essendo la più elevata d’Europa, pari al 75,6% (al 2015) contro una media dell’EU28 del 54%. Infine, l’impegno per la decarbonizzazione, sottoscritto a Parigi nel 2015 nell’ambito del Protocollo di Kyoto (COP 21), richiede di:

  • ridurre le emissioni di CO2 di almeno il 40% rispetto a quelle del 1990;

  • coprire i consumi energetici con energie rinnovabili per almeno il 27%;

  • migliorare l’efficienza energetica per almeno il 27%.

Questi obiettivi, da conseguire entro il 2030, costituiscono solo il primo stadio della riduzione delle emissioni di CO2 che dovrebbe raggiungere l’80% o addirittura il 100% entro il 2050. Per inciso, la SEN mette in evidenza che la lotta ai cambiamenti climatici e l’accesso all’energia pulita sono due dei 17 obiettivi indicati nell’Agenda per lo sviluppo sostenibile 2030, approvata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 21 ottobre 2015, che vuole essere una linea guida per le politiche di sviluppo e per un nuovo sistema di governance mondiale.


A queste premesse intendono rispondere le politiche e le misure prospettate nella SEN che però sembrano piuttosto sorprendenti, poco convincenti e per qualche verso preoccupanti. Gli scenari descritti nella SEN sono stati elaborati tramite appositi modelli matematici, coerenti in ambito europeo, basati su parametri che dipendono fortemente da situazioni internazionali di grande incertezza. Si tratta, ad esempio, dell’evoluzione del costo delle materie prime, legato ad imprevedibili vicende geopolitiche, del prezzo della CO2, che ha presentato forti fluttuazioni sin dall’avvio dei meccanismi flessibili introdotti dal Protocollo di Kyoto, delle efficienze energetiche delle nuove tecnologie che potrebbero imporsi nei prossimi anni, in particolare di quella del sequestro e stoccaggio dell’anidride carbonica (CCS) nella quale si ripongono molte speranze, e del mercato più generale delle fonti energetiche. Tuttavia, mettere in discussione i criteri adottati per quantificare i suddetti parametri potrebbe risultare irrilevante, in quanto rimarrebbero immutate le accennate incertezze. Piuttosto, sembra il caso di verificare se il problema energetico non possa essere affrontato diversamente, integrandolo possibilmente con i risvolti ambientali, sociali e di politica del territorio.



TARGET RINNOVABILI – Su alcuni aspetti del problema energetico richiamati nella SEN sembra opportuno qualche chiarimento preliminare. Viene messo in evidenza che dalla consultazione pubblica, condotta nella fase istruttoria, sarebbe emersa un’ampia condivisione sulla decarbonizzazione, almeno ai fini della generazione elettrica, ma anche sulla necessità di anticipare la dismissione della produzione termoelettrica a carbone al 2025 invece che al 2030. Dallo stesso documento emerge poi un certo compiacimento per il fatto che l’Italia è stata più virtuosa di altri paesi nel rispettare il target per le rinnovabili stabilito al 17% per l’anno 2020. Infatti, al 2015 l’Italia era al 17,5% mentre la Francia era a -7,8% del proprio target, il Regno Unito a -6,8%, la Spagna a -3,8% e la Germania a -3,4%. Si può ritenere che i paesi che hanno a disposizione petrolio, carbone o centrali nucleari cercano di sfruttare queste risorse il più possibile oppure semplicemente che essi rispettano il piano di avvicinamento al target, non vedendo ragioni per accelerare la decarbonizzazione.


La politica di riduzione delle emissioni di gas serra, in particolare dell’anidride carbonica, attraverso una parziale copertura della domanda energetica con fonti rinnovabili, non è un gioco che premia i più virtuosi ma è un contributo che ciascuno degli stati che ha condiviso le finalità di detta politica si è impegnato ad offrire, secondo il principio della responsabilità differenziata, in uno sforzo comune, che è efficace solo se tutti fanno la propria parte contemporaneamente.


È bene tenere presente le proiezioni del Word Energy Outlook 2016, richiamate nella stessa SEN, riguardo all’energia primaria a livello mondiale, prevedono un aumento da 13,7 Gtep del 2014 a 14,6 Gtep nel 2020 e a 16,6 Gtep nel 2030. Si prevede altresì che tra il 2014 e il 2030 il mix delle fonti energetiche primarie mondiali muti di poco, con una crescita che andrà dal 5 al 6% per il nucleare, dal 14 al 17% per le rinnovabili e dal 21 al 23% per il gas naturale. Pure per il carbone e i prodotti petroliferi è prevista una crescita ma debole per cui il loro contributo sul mix energetico mondiale, nello stesso intervallo di tempo, andrà riducendosi in percentuale, passando dal 29 al 25% per il carbone e dal 31 al 29% per il petrolio. In sostanza, nell’arco di quindici anni il consumo dei combustibili fossili potrebbe aumentare di oltre il 12%, sia pure con una riduzione dell’incidenza sui consumi totali che passerebbe dall’81% al 77%. La quota di consumi energetici mondiali riconducibile all’Europa è intorno all’11% ma è destinata a scendere in previsione degli sviluppi che si registreranno in Cina, India e paesi del sud America e dell’Africa. Pertanto, la riduzione delle emissioni di CO2 che l’Europa si è impegnata a conseguire sarebbe irrilevante se venisse a mancare un analogo impegno da parte delle nazioni citate e degli Stati Uniti, che singolarmente ne producono molta più di quanto non ne rilasci l’EU28. A maggior ragione appaiono fuori luogo gli sforzi dell’Italia di accelerare la riduzione delle emissioni di CO2, addirittura da “primi della classe”. A prescindere dal fatto che la stessa SEN esprime perplessità sulla reale fattibilità, dal punto di vista tecnico e gestionale, della completa eliminazione del carbone entro il 2025, la maggiore preoccupazione è che l’eccesso di zelo da parte dell’Italia sia addirittura controproducente sul piano ambientale, economico e sociale, se diventa causa di carbon leakage e di trasferimento di produzioni industriali in paesi poveri dove il consumo di carbone è prevalente e il riguardo per l’ambiente è l’ultimo dei pensieri. Questo fenomeno si registra da anni, tanto da aver indotto la Commissione europea ad agevolare molti settori e sotto-settori produttivi, in larga parte di tipo energy-intensive, ritenuti più esposti al rischio di delocalizzazione, assegnando una parte delle quote di emissione per il periodo 2013-2020 a titolo gratuito. Questo problema non è affatto superato ma attualmente è ancora al centro dell’attenzione della Commissione per la nuova assegnazione delle quote di emissione per il periodo 2021-2030. Il problema della CO2 di origine antropica, assumendo che sia effettivamente questo gas serra il maggiore responsabile di futuri cambiamenti climatici non meglio specificati, non è una questione locale o nazionale ma un fenomeno planetario. Esso si risolve solo se c’è la cooperazione continua e contemporanea tra gli stati firmatari degli accordi di Parigi senza accelerazioni o rallentamenti da parte di alcuno.



INTENSITA’ ENERGETICA – Un secondo chiarimento preliminare riguarda alcuni passaggi della SEN, là dove si esprime la soddisfazione per l’efficienza energetica che negli ultimi anni sarebbe migliorata, basandosi sul fatto che l’intensità energetica si è ridotta, pertanto facendo intendere che tra i due parametri esista una relazione univoca. L’intensità energetica, ovvero il rapporto tra il consumo interno lordo di energia (in tonnellate di petrolio equivalente) e il Prodotto Interno Lordo (in euro) è un indicatore dello sviluppo economico di un paese che dipende dalla struttura economica e industriale e dagli stili di vita e non dalla sola efficienza energetica. Infatti, l’intensità energetica è un parametro che risente presto delle situazioni di crisi. Per esemplificare, se una condizione di impoverimento economico del paese induce ad acquistare dalle bancarelle prodotti di provenienza straniera, spesso incerta e senza garanzie, piuttosto che prodotti italiani presso i negozi convenzionali, non c’è da stare molto contenti per l’intensità energetica che si riduce, se, allo stesso tempo, i negozi chiudono, le bancarelle prolificano e le città si degradano. Al contrario, se fra qualche anno dovesse affermarsi la tecnologia della cattura e stoccaggio dell’anidride carbonica (CCS), che comporterebbe un aumento non trascurabile di consumo di energia, presumibilmente l’intensità energetica aumenterebbe, ma allora ci sarebbe da essere contenti avendo trovato una soluzione sostenibile alle emissioni di anidride carbonica. In sostanza, sull’intensità energetica incidono molti fenomeni che sarebbe utile analizzare più in dettaglio, anche per dare un peso al mercato di beni prodotti nelle aree più inquinate del pianeta che il mercato globale offre a basso costo dissuadendo le produzioni nazionali, svuotando le campagne e impoverendo il paese.



SCENARI PROSPETTATI DALLA SEN - Non essendo ancora disponibile la tecnologia CCS, la decarbonizzazione si può realizzare solo tramite le fonti energetiche rinnovabili (FER) ovvero, ai sensi della direttiva 2009/28/CE (art. 2), quelle derivate da fonti non fossili: vento, sole, oceano, invasi e corsi d’acqua, biomassa, gas di discarica, gas residuati dei processi di depurazione, biogas, ai quali si aggiungono le pompe di calore (aerotermiche, geotermiche e idrotermiche) che sfruttano differenze di temperatura riscontrabili in natura. Sorprende che la SEN finisca per assegnare un ruolo centrale praticamente alle sole fonti eolica e fotovoltaica le quali, entro il 2030, arriverebbero a coprire il 60% della generazione elettrica da FER. In sintesi, per l’idroelettrico non sono previste nuove realizzazione ma solo un aumento della produzione con progetti innovativi per alcuni degli impianti esistenti e il revamping per i restanti altri, in questo caso per non perdere la potenza installata. Per le pompe di calore è previsto uno sviluppo tra le rinnovabili termiche che dovranno salire dal 19,2% del 2015 al 30% nel 2030, mentre lo sfruttamento delle biomasse resterà sostanzialmente stabile, sia per la generazione elettrica sia per gli usi termici nel settore residenziale. Potrebbe aumentare la produzione di biogas, parte del quale da destinare ai trasporti. Resta incerto il ruolo della geotermolettrica. Al 2030, eliminato completamente il carbone e assicurato il 28% dei consumi con fonti rinnovabili, il restante 72% verrebbe coperto dal gas e in piccola parte dal petrolio. Pertanto il gas, pur essendo un combustibile fossile, è destinato ad avere un ruolo chiave durante e dopo la transizione energetica.



EOLICO E FOTOVOLTAICO – La prevista massiccia penetrazione delle tecnologie eoliche e fotovoltaiche è giustificata dal costo che è diminuito negli anni e dalla previsione, non meglio motivata, che “il progresso tecnologico ridurrà ulteriormente i costi del 40-70% per il fotovoltaico e del 10-25% per l’eolico”, riduzione che però, come si legge in nota, è attesa solo per il 2040.


Una pubblicazione dell’ENEA del 2017, su “Decarbonizzazione dell’economia italiana”, riferisce che la potenza eolica installata in Italia a fine 2015 era di 8.942 MW e nello stesso anno erano stati prodotti 14,6 TWh, pari al 4,6% della richiesta di energia elettrica. Pertanto, si può assumere che un impianto eolico, mediamente, funziona per 1600 ore/anno. Ciò vuol dire anche che per sostituire una centrale termoelettrica a carbone come quella, ad esempio, di Brindisi con 2.640 MW installati, servono, in linea teorica, circa 6.000 impianti eolici da 2 MW, nell’ipotesi che siano tutti di uguale taglia. Detti impianti, se si volesse mantenere una distanza di 500 m tra due aerogeneratori, verrebbero distribuiti su una superfice di 150.000 ettari, mentre l’area occupata attualmente dalla centrale è di soli 270 ettari. Ciò che lascia perplessi è che la potenzialità della centrale di Brindisi è poco più di un decimo della potenza eolica, di quasi 25.000 MW, che sarebbe necessario installare per produrre, per il 2030, i 40 TWh previsti dalla SEN. In pratica, fra tredici anni dovrebbero essere funzionanti 55.000 impianti eolici da 2 MW. Analoghe valutazioni si possono fare per i pannelli fotovoltaici. Nel citato studio dell’ENEA si legge che alla fine del 2014, in Italia, erano in esercizio circa 650.000 impianti per 18,6 GW installati e 22,3 TWh elettrici prodotti. Nel 2016 il numero di impianti era salito a 732.053 con una potenza installata di 19,3 GW e una produzione di 22,1 TWh. In pratica, per passare da una produzione attuale di circa 22 TWh a 72 TWh nel 2030, come previsto dalla SEN, si dovrebbero installare altri 43.000 MW di potenza, ovvero oltre un milione e mezzo di impianti fotovoltaici che avrebbero bisogno di centinaia di Km2 di superfice da ricoprire. Se questi scenari di sviluppo dell’eolico e fotovoltaico prevedibili per il 2030 possono sorprendere, quelli attesi per il 2050 lasciano un po’ basiti. Infatti, per quell’anno, al fine di completare il programma di decarbonizzazione, occorrerebbe poter produrre ulteriori 370 TWh di elettricità “principalmente da FER intermittenti, come eolico e fotovoltaico”, come specifica la SEN. Ciò implica la realizzazione grosso modo di altri 200.000 impianti eolici, da distribuire su 50.000 Km2, e di sette milioni di impianti fotovoltaici che avrebbero bisogno di migliaia di Km2 di superfici, che tutti i tetti del paese non riuscirebbero a mettere a disposizione.


Ciò premesso, viene da chiedersi se nei costi dell’eolico e del fotovoltaico, in particolare di quelli previsti per il 2040, siano stati internalizzati o meno i costi e i rischi di adeguamento della rete elettrica, per ricevere la produzione di milioni di piccoli impianti distribuiti sui tetti delle case e la produzione di centinaia di migliaia di impianti eolici piccoli e grandi, magari in parte localizzati in mare, i costi e i rischi di gestione di un servizio che dovrà continuamente bilanciare la produzione di una infinità di impianti, dispersi su tutto il territorio nazionale, con l’accumulo e l’erogazione dell’energia elettrica, i costi delle amministrazioni locali impegnate a curare i processi autorizzativi i quali, dovendosi adeguare alle politiche territoriali, incontreranno prevedibili difficoltà, e i costi dell’impatto ambientale, pur volendo limitare quest’ultimo al consumo di suolo e agli aspetti paesaggistici. La SEN considera il paesaggio un valore irrinunciabile, per cui prevede prioritariamente la localizzazione dei suddetti impianti nelle aree industriali dismesse, sui capannoni e sui tetti delle case come se questo non possa essere un’altra forma di trasfigurazione del paesaggio, a prescindere dal fatto che questi spazi sarebbero certamente insufficienti. Senza considerare poi il costo degli impianti termoelettrici costretti a ridurre la produzione di energia elettrica, nei periodi in cui essa è prodotta e messa in rete dalle fonti rinnovabili, e in sostanza a ridurre la percentuale di utilizzo annuo al punto di operare in perdita economica. Questa voce di costo incide sulla bolletta elettrica già da tempo ma è destinata a crescere in quanto sarà sempre strategicamente indispensabile mantenere un certo numero di centrali termoelettriche, alimentate da fonti fossili certe, capaci di produrre energia elettrica all’occorrenza, anche nel caso che le fonti rinnovabili avessero una potenza installata teoricamente sufficiente a coprire i fabbisogni.


In ogni caso, se la politica energetica futura mondiale fosse destinata a contare inevitabilmente sull’eolico e sul fotovoltaico, in considerazione che la sola Italia sarebbe costretta a dotarsi di un numero incredibile di impianti, la maggiore preoccupazione dovrebbe essere per il rischio di approvvigionamento di alcune materie prime strategiche, al quale la SEN non accenna nemmeno. Questo rischio è stato segnalato per la prima volta dalla Commissione Europea al Parlamento, al Consiglio, al Comitato Sociale ed Economico e al Comitato delle Regioni, con una comunicazione del 2 febbraio 2011 che elencava 14 materie prime minerali (antimonio, berillio, cobalto, fluorite, gallio, germanio, grafite, indio, magnesio, niobio, tantalio, tungsteno, gruppo terre rare, gruppo metalli del platino) di grande importanza economica, alcune delle quali indispensabili proprio per le tecnologie degli impianti eolici, delle celle fotovoltaiche e dei sistemi di accumulo dell’energia. Ad esempio, il neodimio e il disprosio servono per gli elettromagneti impiegati nelle turbine eoliche mentre le celle fotovoltaiche hanno bisogno di diseleniuro d’indio e rame, di tellurio di cadmio e di germanio come materiali per i “film sottili”. La citata comunicazione fu aggiornata dalla Commissione Europea una prima volta nel 2014, e quelle materie salirono a venti, e una seconda volta nel 2017 e l’elenco si estese a 27 materie prime strategiche. Si tratta di elementi chimici o minerali che l’Europa non possiede, presenti sul pianeta in quantità molto ridotte, che non hanno sostituti possibili e hanno anche un basso tasso di riciclo. La loro produzione è concentrata in pochi paesi, come il niobio in Brasile, i metalli del gruppo del platino in Sud Africa, il cobalto nella Repubblica del Congo, l’antimonio, il bismuto, il cobalto, il gallio, il germanio, il tungsteno in Cina e il mercato non è libero ma è gestito direttamente dai governi.


Non è dunque prevedibile come potrà evolvere il mercato di queste materie prime e, di conseguenza, non è facile valutare a quali costi si potranno rinnovare gli impianti eolici e fotovoltaici avviati nel decennio passato o che saranno realizzati nei prossimi anni, quando avranno completato il ciclo di vita. È estremamente rischioso adottare una strategia energetica che faccia ampio affidamento proprio su queste tecnologie.



IDROELETTRICO - A livello mondiale, il 67% delle fonti rinnovabili è idroelettrico e solo il 27% è eolico e fotovoltaico (dati riferiti al 2013 riportati nella relazione del Ministero dello Sviluppo Economico del luglio 2015 su “La situazione energetica nazionale nel 2014”). In Italia, l’idroelettrico copre il 17% del mix generativo elettrico, pari al 44% circa delle fonti rinnovabili (dati 2015). La SEN, pur riconoscendo all’idroelettrico un’importanza strategica per la politica da perseguire al 2030 e al 2050, dà per scontato, senza motivazioni, che si tratta di una risorsa in larga parte già sfruttata. Eppure l’Italia dispone di una catena alpina e di una catena appenninica straordinarie, per una lunghezza complessiva di 2.400 Km, che la natura ha generosamente distribuito lungo tutto lo stivale e che, forse, se ben gestite, potrebbero dare un contributo al paese ben maggiore di quanto avvenga oggi, in termini di fornitura di acqua potabile e di energia. La Francia, che dispone di catene montuose ma non come l’Italia, ha una capacità installata di idroelettrico di 25,4 GW, molto maggiore dei 18,5 GW italiani (dati 2015).


La fonte idroelettrica praticamente non emette CO2, può produrre energia elettrica con continuità o con flessibilità, secondo le necessità, per rispondere alle richieste di punta, dispone di invasi per il bilanciamento delle reti e per lo stoccaggio di energia, con i sistemi di pompaggio, e all’occorrenza integra la domanda per l’irrigazione e l’acqua potabile.


Questi caratteri non li ha né la fonte eolica né quella fotovoltaica le quali funzionano ad intermittenza, in maniera variabile e imprevedibile. Persino la realizzazione di laghetti collinari a servizio di terreni a valle sarebbe estremamente utile all’agricoltura, eviterebbe attingimenti dalle falde sotterranee a rischio di inclusione di acqua salata, farebbe risparmiare energia e potrebbe anche produrne nei periodi invernali quando c’è meno richiesta di irrigazione dei campi.


Dal documento dell’ENEA sulla decarbonizzazione dell’economia italiana, dal quale provengono gli scenari della SEN, si ricava che i costi dell’idroelettrico sono dello stesso ordine di grandezza dell’eolico e del fotovoltaico per grandi impianti che presuppongono grandi dighe. Volendo escludere queste ultime e guardando invece a taglie intermedie, sia pure a costi più elevati, resta il fatto che gli anni di vita tecnica sono più che tre volte l’eolico e almeno due volte il fotovoltaico. Pertanto, nei 70÷80 anni di vita di un bacino idroelettrico, gli impianti eolici e fotovoltaici dovranno essere rinnovati almeno due volte a costi che, per quanto detto in precedenza, è difficile prevedere a distanza di decine di anni.



BIOMASSE La SEN non prevede uno sviluppo nello sfruttamento delle biomasse né per la produzione di elettricità, per il costo troppo elevato, imputabile principalmente all’acquisto del combustibile, né per la produzione di calore, per la bassa efficienza degli impianti e per l’inquinamento prodotto. Anche queste valutazioni portano a credere che i modelli matematici adottati per elaborare gli scenari energetici futuri tengano conto esclusivamente del costo degli impianti senza alcuna considerazione per la situazione del paese e senza alcuna internalizzazione dei costi e dei benefici indiretti. Vi sarebbe però un altro modo di affrontare il problema delle biomasse partendo da due considerazioni. La prima riguarda le aree boschive, che in Italia coprono più di dieci milioni di ettari di terreni, circa un terzo del territorio. A differenza di quanto avviene in altri paesi, la ricrescita annuale viene sfruttata in minima parte, forse per gli eccessivi vincoli posti sui boschi, che dissuadono ogni iniziativa di sfruttamento, oppure semplicemente per generale disinteresse e carenza di organizzazione. È bene tenere presente che il bosco non è un pozzo inesauribile di anidride carbonica in quanto, a maturazione, diventa solo uno stoccaggio di carbonio, per cui tenerlo in abbandono non fa alcun bene all’effetto serra ed è addirittura una contraddizione quando si fa di tutto per ridurre tale effetto.


La seconda considerazione riguarda quella parte di territorio nazionale degradata, che balza alle prime pagine della cronaca ogni qualvolta si registrano alluvioni e esondazioni o si scoprono discariche abbandonate. Vi sono oltre 120.000 ettari di aree terrestri d’interesse nazionale da bonificare, e estensioni forse ancora maggiori d’interesse regionale, dovute ad attività industriali dismesse, aree portuali e cave abbandonate, aree contaminate da smaltimento abusivo di rifiuti. Vi sono poi terreni franosi, versanti instabili o sponde di fiumi dissestate. Considerando che per alimentare una centrale a biomasse da 5 MW, ricorrendo a specie ligneocellulosiche a crescita rapida con ceduazione triennale, è necessario il raccolto di 2.000 ÷ 2.500 ettari, una politica sistematica di forestazione solo di una parte di detti terreni disastrati, consentirebbe di realizzare molti impianti di produzione di energia elettrica e possibilmente anche termica, contribuendo a rimettere in sesto il territorio, creare posti di lavoro, acquisire crediti di emissione di CO2 tramite i meccanismi del Protocollo di Kyoto, e assicurare anche una migliore conservazione della biodiversità, tema, quest’ultimo, che costituisce un altro dei diciassette obiettivi stabiliti dalla citata Agenda dell’ONU. Iniziative di questo tipo si potrebbero agevolare con accordi di programma sottoscritti dalle istituzioni locali e da privati, con l’impegno per i primi di individuare le aree da riforestare e accollarsi i costi della piantumazione degli alberi, interventi assolutamente doverosi che attendono da decenni di essere attuati, e per i privati di gestire al meglio i terreni e la filiera di produzione dell’energia elettrica e termica.



CHIMICA VERDE - Nella SEN si fa presente che con il processo di decarbonizzazione non si può pensare di eliminare completamente anche il petrolio oltre al carbone fossile in quanto “A sostenere la domanda di petrolio è soprattutto la difficoltà a trovare alternative idonee a sostituire a costi accettabili i prodotti petroliferi nei trasporti e nella petrolchimica”. Questo è comprensibile e tuttavia un contributo alla riduzione del petrolio potrebbe derivare dalla cosiddetta chimica verde e dalle biotecnologie che sono in grado di ricavare tantissime sostanze dalle piante invece che dalle materie prime fossili, come si preferisce oggi per ragioni economiche. Lo sviluppo della chimica verde farebbe migliorare l’utilizzo dei terreni e dei boschi, ridurre la dipendenza dalle importazioni e assicurare un maggiore presidio del territorio. Ancora una volta, per valutare questi vantaggi, in presenza di soluzioni alternative, è necessario applicare il principio chi-inquina-paga e quello dello sviluppo sostenibile, ovvero internalizzare i benefici ambientali e sociali assieme ai costi occulti, perché indiretti, che comportano le materie prime fossili d’importazione. Non sarebbe sprecato finanziare progetti di ricerca e innovazione nel campo della chimica verde e incentivare le iniziative imprenditoriali in questo settore con lo strumento della tassazione ambientale.



GEOTERMIA – L’atteggiamento della SEN nei confronti della geotermia non è chiaro. Con linguaggio criptico, si afferma che per la geotermia ad emissioni zero “sarà attivata - previo assenso della Commissione Europea – una procedura ad hoc, non tecnologicamente neutra, per meglio intercettarne la struttura di costo, tipicamente differente da quella di tecnologie mature quali fotovoltaico ed eolico”. Si legge ancora che la geotermia rappresenta un tema “su cui sussiste, insieme, una sufficiente presenza degli organismi di ricerca, un interessante sostrato industriale e un rilevante interesse di sistema, trattandosi di temi importanti non solo per gli obiettivi 2030 ma anche e soprattutto in una prospettiva di più lungo termine”. Non è chiaro cosa dovrebbe accadere in futuro per rendere più importante la geotermia. In definitiva, per ora si prevede una crescita molto contenuta, sostanzialmente la sola riqualificazione degli impianti esistenti. Sarebbe invece il caso di promuovere una valutazione puntuale delle potenzialità del territorio italiano dal momento che contributi eventualmente modesti contribuirebbero comunque a migliorare la sicurezza degli approvvigionamenti e l’indipendenza dalle esportazioni.



TRASPORTI - Nel settore dei trasporti, per il 2030, si punta a portare al 21% il ricorso alle fonti energetiche rinnovabili rispetto al 6,4% del 2015, promuovendo principalmente l’uso di biocombustibili e di auto elettriche. Il risparmio energetico si dovrebbe realizzare invece con misure di mobilità locale intese a ridurre il traffico urbano, agevolare il ricorso a car sharing e car pooling e migliorare il trasporto pubblico, oltre che continuando a migliorare le prestazioni energetiche delle nuove auto.


Ancora una volta, i buoni propositi sono rassicuranti ma le esperienze inducono allo scetticismo. A partire dal 1992, i limiti alle emissioni degli autoveicoli sono stati ridotti progressivamente (da Euro 1 a Euro 6 per i veicoli leggeri o da Euro I e Euro VI per quelli pesanti) con un continuo incoraggiamento al rinnovo del parco auto, limitando la circolazione o l’accesso nei centri delle città agli autoveicoli di volta in volta più vecchi. A distanza di un quarto di secolo si constata che tutto questo è servito a promuovere il rinnovo del parco macchine più volte ma non ha migliorato la qualità dell’aria nei grandi centri urbani. Gli standard di qualità dell’aria, stabiliti con la Direttiva 2008/50/CE, erano giustificati da una serie di benefici attesi tra i quali, la riduzione, entro il 2020, di morti premature attribuibili all’esposizione a PM e ozono da 370.000 a 140.000 unità. Dall’Agenzia Ambientale Europea si apprende invece che nel 2016 l’inquinamento dell’aria in Europa ha provocato 450.000 decessi prematuri.


Con la nuova SEN si prevede di incentivare le auto elettriche o ibride, ma è ben difficile immaginare di poter sostituire tutto l’attuale parco macchine, a meno di non metterlo fuori uso, nel giro di qualche anno, per legge, progressivamente, a partire dalle Euro 0. Ancora una volta, è strano che, in previsione di una diffusione più o meno esponenziale delle auto elettriche (peraltro non solo in Italia), la SEN non si sia posto il problema della conseguente analoga crescita delle batterie e dell’elettronica connessa che potrebbero stravolgere il mercato del litio, del nickel e del cobalto, quest’ultimo incluso già tra le materie prime strategiche non sostituibili e con tasso di riciclo nullo.



RICERCA E INNOVAZIONELa SEN annuncia un impegno a raddoppiare gli investimenti in ricerca e sviluppo di tecnologie clean energy dai 222 milioni del 2013 a 444 milioni nel 2021. Lo stesso documento però fa presente che le risorse destinate alla ricerca energetica restano modeste se raffrontate con quelle della Francia o della Germania, i brevetti italiani di interesse mondiale sono pochissimi, la partecipazione italiana ai programmi di ricerca europea si è ridotta, forse per mancanza di competizione. La causa annosa di tutto questo è la frammentazione dei centri di ricerca nazionali, universitari e privati e la mancanza di coordinamento. Forse si potrebbe creare un maggiore interesse alla ricerca e una maggiore utilità della stessa per il paese se si destinasse una quota dei fondi a questioni energetiche nazionali, piuttosto che lasciare che i ricercatori si limitino a cercare piccoli contributi in progetti internazionali dai quali altri paesi, meglio organizzati, sono capaci di trarre benefici.



LA STORIA – Nella prima metà del XIII secolo, l’arrivo del carbone fossile nella città di Londra fu accolto con entusiasmo dagli artigiani, perché assicurava prestazioni migliori della legna e del carbone di lagna ed era meno costoso degli stessi, salvo poi accorgersi che offuscava il cielo e intossicava l’aria. Questo fenomeno si manifestò in tutte le grandi città e via via che esse crescevano andò peggiorando, sino agli anni ’70, quando iniziò il phase-out del carbone che si vorrebbe concludere nei prossimi decenni, dopo nove secoli. Verso la fine del secolo scorso fu la volta del petrolio, atteso come il combustibile alternativo al carbone fossile che avrebbe liberato le città dalla cappa opprimente dei fumi neri e acidi e con le benzine avrebbe agevolato la diffusione degli autoveicoli i quali, a loro volta, avrebbero ripulito le strade dallo sterco degli animali che trainavano carri di ogni tipo. Ci si rese poi conto che pure il petrolio inquinava l’ambiente con sostanze meno visibili e più subdole. Col tempo si rivelarono dannosi anche molti componenti o derivati del petrolio: piombo tetraetile e benzene, clorofluorocarburi e affini, composti organici volatili, gas serra e nerofumo, DDT, PCB e prodotti Organici Persistenti, materie plastiche e rifiuti vari. Dopo poco più di un secolo forse inizierà il phase-out del petrolio ma molto più lentamente del carbone fossile perché non è facile liberarsene. Nel secondo dopoguerra fu la volta della fonte nucleare impiegata a fini pacifici che finalmente non emetteva nulla nell’aria, ma si capì subito che eventuali emissioni di gas per cause accidentali avrebbero potuto diffondersi a grandi distanza, rimanere nell’ambiente per centinaia di anni e generare danni molto maggiori degli inquinanti convenzionali. A distanza di una settantina di anni sono in tanti i paesi che vorrebbero dismettere questi impianti ma nemmeno di questa fonte energetica è facile liberarsi. Negli anni ’70 si affacciò il gas metano, che “ti dà una mano” e rende il cielo pulito, come promettevano gli annunci pubblicitari. In poco tempo l’uso del gas si diffuse in tutto il paese, ma fu chiaro che pure quel combustibile un po’ d’inquinamento lo produceva, la sua combustione rilasciava un gas serra come l’anidride carbonica ed era lui stesso un gas ad effetto serra. Ciò nonostante di phase-out del gas metano non se ne parla ed anzi proprio su questo combustibile si ripone la maggiore sicurezza di produzione energetica, per molti decenni a venire. Ora sono le fonti alternative, in particolare l’eolico e il fotovoltaico, ad essere esaltate come la soluzione ad ogni problema. C’è da sperare che questa volta le controindicazioni non emergano in tempi brevi, come, ad esempio, l’abbandono dei parchi eolici per indisponibilità di materie prime strategiche e impossibilità di rinnovo degli impianti a fine vita.



CONCLUSIONI – Da una lettura attenta della SEN 2017 si deduce, perché non è scritto esplicitamente, che entro venti o trent’anni la situazione energetica nazionale è destinata ad essere completamente stravolta, con prevedibili conseguenze sul piano economico, ambientale e sociale non qualificate né quantificate. È prevista infatti l‘installazione di milioni di impianti fotovoltaici, di centinaia di migliaia di impianti eolici, la dismissione di centrali termoelettriche, la chiusura di raffinerie o la loro trasformazione in bioraffinerie, l’immissione sul mercato di molte centinaia di migliaia o milioni di macchine elettriche e di conseguenza l’installazione di decine di migliaia di colonnine per la ricarica delle batterie, oltre alla realizzazione di una rete di gas che attraverserà il paese da un estremo all’altro. Presumibilmente tutto questo non risolverà il problema più pressante e tangibile dell’inquinamento delle grandi aree urbane, a meno che non venga forzato, per legge, il rinnovo del parco macchine, vecchie e obsolete. In questo scenario allucinante non è facile intravedere solo l’adempimento compiaciuto degli impegni internazionali in fatto di cambiamenti climatici, senza preoccuparsi della prevedibile trasfigurazione di estesi territori in tutto il paese, dei costi dell’operazione che saranno inevitabilmente molto elevati e ricadranno su tutti i cittadini e del fatto che l’intera operazione non servirà nemmeno ad acquisire un’effettiva sicurezza degli approvvigionamenti energetici e l’indipendenza dalle importazioni, poiché continueranno a mancare materie prime energetiche, tecnologie, know-how e materie prime strategiche. Una strategia come la SEN è una rivoluzione di non ritorno, che rischia di fallire a metà del guado o anche prima, perché sembra che abbia completamente ignorato una serie di conseguenze economiche e ambientali, e pertanto merita un’attenta riflessione da parte di tutti, in particolare del mondo accademico.


Ciò che si vuole prevenire è un fenomeno, l’inquinamento dell’atmosfera da gas serra, a “rischio di cambiamenti climatici”. Pertanto, sarebbe stato logico affrontare il problema con i criteri dell’analisi di rischio. Quest’ultimo, per definizione, è dato dalla probabilità che si verifichi un certo evento moltiplicata per l’entità del danno conseguente. Nel caso del cambiamento climatico è controversa persino la definizione, è praticamente impossibile quantificarne il danno e a maggior ragione è difficile associare una distribuzione di probabilità che l’evento si concretizzi. Quando si vuole mettere in sicurezza un’attività produttiva a rischio si adottano tutte le misure possibili ma a costi commisurati alla probabilità del danno. Se a quest’ultimo si dà un valore infinito, non sapendo come qualificarlo e quantificarlo, ogni richiesta di prevenzione sembra lecita ma l’attività rischia di chiudere. Nel caso dei cambiamenti climatici, in una condizione di valutazioni molto evanescenti e di difficile quantificazione dei fenomeni, le attività a rischio di chiusura sono quelle dell’uomo che producono gas serra.


Volendo perseguire gli obiettivi del Protocollo di Kyoto e rispettare gli accordi di Parigi, l’impostazione della SEN sembra assolutamente contraddittoria. La vera sicurezza energetica di un paese non è nella “capacità di soddisfare il fabbisogno di energia” con un sistema flessibile e resiliente che dipenda da più fornitori, ma nel grado di autonomia energetica, potendo disporre di fonti di approvvigionamento interne, di tecnologie e di know-how propri. Pertanto, sarebbe stato opportuno partire con uno studio preliminare minuzioso e approfondito di tutte le potenzialità, anche modeste, che il territorio italiano può offrire riguardo all’idroelettrico, alle biomasse, al geotermico, alla chimica verde, alle fonti di calore sfruttabili con pompe di calore, ma anche alle aree disponibili e più idonee per sfruttare al meglio il sole o il vento. L’analisi delle fonti alle quali attingere per coprire la domanda di energia che non si può produrre autonomamente si sarebbe dovuta fare in un secondo momento. Un piano energetico nazionale, per essere strategico, deve partire dal territorio, con un approccio integrato che sfrutti al massimo le risorse rinnovabili del paese in una visione integrata che rispetti la natura, evitando di degradare diversamente i territori già degradati o di favorire il cambio di destinazione di terreni agricoli con conseguente perdita di biodiversità.


L’elaborazione di una strategia energetica nazionale, concettualmente, si può considerare equivalente alla scelta della BAT (Best Available Technology) per un processo produttivo, tenendo presente che la parola tecnologia è riferita all’intero ciclo di vita, dalla progettazione alla dismissione, che la parola migliore allude alle tecniche più efficaci per ottenere un livello di protezione dell’ambiente nel suo insieme e la parola disponibile intende che vanno prese in considerazioni le tecnologie che hanno costi economicamente ragionevoli con riferimento alle circostanze locali o nazionali. L’impostazione della SEN non segue nemmeno questa strada perché non si parla del ciclo di vita delle tecnologie, non emerge nessuna protezione dell’ambiente nel suo insieme e non si accenna a nessuna scelta fatta in rapporto a condizioni particolari locali o nazionali.


Esistono poi altri modi per ridurre la domanda energetica che sarebbe opportuno valutare prima di elaborare una strategia a medio-lungo termine che stravolga il sistema esistente. Il tasso d’inquinamento più preoccupante sul pianeta è lungo la fascia tropicale e sub-tropicale là dove si produce una gran quantità di beni importati in Europa e negli Stati Uniti, favoriti da un mercato globale che contribuisce largamente a generare gas serra ma non ne internalizza alcun costo. Se gli stessi beni si producessero in Europa e negli Stati Uniti le emissioni si ridurrebbero, pur nell’ipotesi di dover ricorrere ai combustibili fossili come fonte energetica.


Se si allungasse la vita di tanti prodotti commerciali, obbligando le industrie a estendere solo di un anno la garanzia, si ridurrebbe la domanda di materie prime, si ridurrebbero i rifiuti e soprattutto si risparmierebbe molta energia.


Tante metropoli si sono sviluppate con un’urbanistica che ha favorito la netta separazione delle aree residenziali da quelle commerciali, in parte relegate fuori città, e da quelle industriali, costringendo larga parte della popolazione a spostarsi tutti i giorni e spesso ad utilizzare i mezzi propri, in mancanza di servizi pubblici efficienti. Si conseguirebbe un gran risparmio di energia se si aiutassero i quartieri delle grandi città e ritrovare il carattere del villaggio e si assicurasse un efficiente servizio pubblico, piuttosto che realizzare infrastrutture sempre più faraoniche in nome di una mobilità non meglio definita, promuovere il rinnovo del parco macchine in nome dell’inquinamento o illudere che in futuro, con le macchine elettriche, si risolveranno ambedue i problemi di mobilità e di inquinamento.


La SEN propone di creare una cabina di regia tra i Ministeri dello sviluppo economico e dell’ambiente con i Ministeri dell’economia, dei trasporti e dei beni culturali, una rappresentanza delle regioni e con periodico coinvolgimento anche degli enti locali. A prescindere dal fatto che vengono ignorati il Ministero per le politiche agricole, alimentari e forestali e il Ministero dell’istruzione, università e ricerca, come se questi non avessero nulla da dire riguardo ad una strategia energetica nazionale, la cabina di regia avrebbe dovuto essere creata prima e non dopo aver tracciato il percorso di decarbonizzazione, in quanto l’energia interessa tutto e tutti e le opportunità per produrre o risparmiare energia sono tante.


Infine, la comunicazione. Non è più tempo per politici, ideologi, tecnici e scienziati continuare a illudere i cittadini che i predecessori hanno sbagliato ma ora siamo sulla strada giusta, che i problemi dell’inquinamento e dell’energia si risolvono con l’eolico e il fotovoltaico, quello dei rifiuti si risolve con la raccolta differenziata e l’economia circolare, lo sviluppo sostenibile si consegue con tutto ciò che viene proposto con i suffissi o prefissi eco e bio, che per creare lavoro occorre consumare sempre di più e che il benessere lo può portare solo il mercato globale. Non si possono prospettare scenari catastrofici con i cambiamenti climatici e proporre soluzioni che preludono a scenari ancora più preoccupanti.





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